La Sentenza che ha posto la parola fine sulla triste vicenda avvenuta qualche anno orsono in una Casa famiglia dell’appennino emiliano, ha affrontato una interessante questione di diritto relativamente al possibile concorso fra l’aggravante della minorata difesa e quella prevista dall’art. 61 comma 1 n. 11 sexies C.p. – introdotta dall’art. 14 comma 1 della L. n. 3/18 - che prevede un aumento di pena laddove l’agente, nei delitti non colposi, abbia commesso il fatto in danno di persone ricoverate presso strutture sanitario o sociosanitaria residenziali o semiresidenziali, siano esse pubbliche o private, ovvero presso strutture socio educative, come era avvenuto appunto nella specie.
L’astratta possibilità che le anzidette circostanze possano concorrere – del che dubitavano le difese degli imputati, smentiti tuttavia dalla Suprema Corte - risiede nella rispettiva differente ratio ricostruita in Sentenza con argomentazione sintetica quanto logica.
In particolare, la circostanza aggravante comune introdotta dalla L. n. 3/2018 è ricollegata ad una condizione spazio-temporale oggettiva, che attribuisce un maggiore disvalore alla condotta illecita tenuta dall’agente in quanto realizzata in un contesto – quello appunto delle strutture sanitarie, sociosanitario o socio educative, all’interno delle quali si esige un adeguato standard comportamentale nell’approccio verso le persone ospitate che stanno vivendo, chiaramente, una condizione di disagio. In altri termini, la condotta si connota per un maggior disvalore e contrarietà ai principi solidaristici espressi dal nostro Ordinamento giuridico laddove commessa in ambienti in cui è lecito attendersi un maggior rispetto della persona non necessariamente in ragione delle condizioni soggettive in cui si trovi l’ospite.
Sotto altro profilo tale disagio non determina tuttavia, necessariamente, l’incapacità della vittima di difendersi da una situazione di approfittamento o di reagire ad atti di sopraffazione alla stessa rivolti. Il che giustifica dunque, almeno in astratto ovvero potenzialmente, per parafrasare l’esatta terminologia impiegata dalla Suprema Corte, la possibilità che le due circostanze aggravanti concorrano laddove il soggetto in situazione di “minorata difesa” sia altresì collocato, obiettivamente, in una delle strutture di cui all’art. 61 c. 1 n. 11 sexies C.p. .
Il dato “statistico” o l’esperienza quotidiana – in ragione della quale è frequente che il soggetto in condizione di minorata difesa sia collocato, anche e proprio per tale ragione, in una struttura sociosanitaria - non implica quindi per ciò stesso che tutti coloro che siano collocati in una delle predette strutture siano anche in una condizione di minorata difesa. Dal che si desume che, ove le due situazioni sottese alle aggravanti si verifichino entrambe, nulla osti alla contestazione ed alla condanna dell’agente per una condotta pluriaggravata nei predetti termini.
Va da sé pertanto che, in concreto, il terreno di confronti fra le parti processuali potrà essere esclusivamente l’aggravante della minorata difesa, posto che al contrario quella di cui all’art. 61 c. 1 n. 11 bis C.p. ha, come detto, natura oggettiva ratione loci.
Avv. Matteo Casalini
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